Nell’ombra delle parole non dette
C’è una stanza buia dentro alcune persone, un angolo nascosto dove si accumulano i cocci di ciò che avrebbero voluto essere e non sono mai stati. La luce del giorno li disturba, perché il giorno chiede coraggio, e loro hanno imparato a sopravvivere nutrendosi di briciole: quelle che trovano spettegolando, sussurrando al telefono con toni fintamente preoccupati, ridacchiando dietro un caffè freddo mentre smontano pezzo per pezzo la vita degli altri. Non è solo paura, è un gioco. Un gioco in cui si sentono giocatori, non pedine.
Li riconosci da come parlano delle persone , mai con le persone. Preferiscono il sussurro alla voce chiara, la frecciatina all’abbraccio, il commento velenoso alla domanda sincera. Affrontare un discorso diretto significherebbe esporsi, mentre loro hanno bisogno di controllare. E nel controllo—nell’arte di demolire senza essere visti—trovano un piacere sottile, quasi perverso. È il brivido di sentirsi superiori, di ridurre gli altri a prede, di trasformare la propria insoddisfazione in un’arma.
Per un attimo, quando seminano zizzania, si sentono vivi. È un sollievo effimero, come grattarsi una ferita che non guarisce. Ma in quel momento, il vuoto dentro di loro tace. Diventano giudici, giustizieri, custodi di verità che nessuno ha chiesto. «Guarda come ti conosco», sussurrano, mentre in realtà conoscono solo la geografia dei propri rimpianti.
Non sono arrabbiati con gli altri. Sono innamorati della propria rabbia.
È più facile distruggere che creare. Più semplice accusare che cambiare. E ogni parola cattiva, ogni risata sarcastica, ogni pettegolezzo è un modo per dire al mondo: «Se non posso avere io, non avrai nemmeno tu». Non è disperazione. È strategia. Una scelta consapevole, anche se zoppa, per sentirsi meno soli nel proprio fallimento.
Tu, che li ascolti o li osservi, forse ti chiedi: Perché non smettono?
Perché hanno già trovato una logica: il dolore degli altri è un diversivo. Un teatrino che li distrae dal loro. E fintanto che saranno impegnati a rompere le scatole, non avranno tempo di chiedersi perché, dentro, continuano a sentirsi incompleti.
Questa è la loro verità: un piacere fugace che sostituisce il vuoto, un fuoco di paglia che li riscalda finché non si spegne, lasciandoli più soli di prima.
Ma non vogliono uscirne.
Perché uscire vorrebbe dire ammettere che il problema sono loro.

Foto di Federico Maderno da Pixabay